Selection from 'Border Town' - 2011 AIRR © Lorenzo Uccellini
UNA CITTA' E I SUOI FANTASMI
Per Lorenzo Di Loreto Pesaro è una città di fantasmi senza volto, ectoplasmi della memoria rievocati da immagini fluide, mobili, rese ancora più misteriose da un bianco e nero dai riflessi lunari. Un’urbe notturna ed evanescente, dove è difficile riconoscere angoli e scorci familiari, che dissolvono i loro contorni nella voluta rapidità dell’immagine, come le strade di Lisbona colte dallo sguardo di Wenders in Lisbon Story, le botteghe di Rimini esplorate da Fellini in Amarcord , la città eterna straziata dal dopoguerra in Roma Città Aperta di Rossellini.
Come nei fotogrammi di un film d’autore, Di Loreto ci conduce in luoghi sospesi in un tempo impossibile, ci accompagna in un’esplorazione di un passato che confina col presente, per rintracciare frammenti di personaggi anonimi ma popolari come “i matti del villaggio”, gli homeless che hanno composto con le loro gesta assurde interi capitoli nella storia di tante città italiane.
Prima erano i poeti a ricordarli, e poi sono arrivati gli artisti e i fotografi, da Stieglitz a Cartier Bresson, mai timorosi di immortalare le traiettorie impercettibili ma definitive della follia nei volti, nei gesti, nelle pose degli esseri umani che hanno deragliato dal binario della “normalità”. Così le immagini di Lorenzo Di Loreto insieme alle parole di Cristina Ortolani ci guidano in una Border Town abitata da Grugén e Pinuccio, Gagio e la Fattora , alla scoperta di una Pesaro diversa e inedita, come la città delle soglie di Annalisa Sonzogni e dei monumenti sospesi di Irene Kung, che prima di Lorenzo Di Loreto hanno interpretato la città di Rossini per il Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro.
Ludovico Pratesi
LA FOTO CHE NON C'E'
Memorie personali, filtrate dalle storie di famiglia, dallo sguardo di un ragazzo, dalla comprensione dell’adulto,
dallo stile del fotografo; infine, dal sentimento di una città.
Lorenzo Di Loreto raduna in Pescheria, uno dei luoghi-simbolo della loro Pesaro, i matti che hanno colorato la vita di almeno tre generazioni. Sì, proprio i matti: per una volta lasciamo da parte il politically correct e diamo spazio alla divina follia, quella che dal Principe Myškin di Dostojevskij ci porta indietro no al Cristo flagellato e deriso. In mezzo: il buffone, il clown, il miserabile, fermato nell’attimo della propria privatissima visione.
Ciclón, Grugén, Iop Iop Drin Drin, la Fattora, Minghén Gózz. E poi Gagio, Pinuccio. Persone che diventano luoghi e luoghi che rimandano presenze; mattoni, dei quali nella nebbia o in un lampo pare di sentire la voce. I vortici astratti delle immagini di Lorenzo ci proiettano immediatamente nelle profondità straziate dell’anima, e il loro biancoenero non appare troppo dissimile dai colori lancinanti di Van Gogh o dai segni sui volti iconici di Rouault (Lorenzo sa che io non riesco a ragionare se non per suggestioni cromatiche). Oppure dalla maschera tutta bu- che nere che attribuiamo a Pasqualon.
Conosco Lorenzo da dieci anni, ormai, e delle sue immagini apprezzo sempre più proprio questa capacità di astrazione mai fredda, la virtù dolorosa di esporsi con eleganza e senza infingimenti: l’arte è una ferita che diventa luce, diceva Georges Braque. E come non riconoscere un po’ di questa luce nelle immagini che, gente di con ne a parte, sono figura dell’autore stesso?
Per una volta mi è offerta la possibilità di raccontare la memoria privilegiando la traccia della suggestione invece che del documento, rovesciando l’abituale prospettiva di chi fiuta indizi e quasi ossessivamente riconosce connessioni, nel tentativo di cercare un senso alle storie. Nessuna conclusione, invece, in questo primo capitolo del progetto Border Town; semmai un inizio: i testi che accompagnano le foto alludono a spunti da approfondire in un’occasione successiva, in un racconto che coinvolgerà altre figure, altri luoghi, altre persone. A proposito, grazie, Lorenzo, per questo viaggio con pochi bagagli, poche certezze, molto spazio bianco da respirare.
Qui di fronte, proprio sotto l’antico orfanotrofio o cittadino, seduti su quelle sedie un po’ sgangherate ci sono Grugén e Iop Iop, con loro anche el Gréll, Ciulina. Altri si affollano intorno, già l’aria della leggenda prevale sull’odore del pesce. Poco più giù la Fattora aspetta il cliente delle sei, e le ombre bianche delle suore svolazzano austere nei corridoi del San Benedetto.
Se vi affacciate un poco, con discrezione, forse riuscirete a incontrarli. Anche Pasqualon e la Micléna sorridono.
Cristina Ortolani
A OCCHI CHIUSI
Ho scelto di catturare nei miei scatti alcuni posti non certo tra le vedute classiche della cittadina. E l’ho fatto risalendo il corso della memoria, personale sicuramente, ma che sfocia spesso in un ricordo collettivo che a quei luoghi ha consacrato alcuni personaggi leggendari. Donare bellezza e clamore ai Palazzi o agli scorci cittadini esula dal mio intento fotografico e artistico. Piuttosto cerco qualcosa in grado di riformare quel legame con le persone che di quelle vie, di quei marciapiedi, furono assidui frequentatori no a divenirne appunto, quasi un simbolo.
Guidano il cuore e lo stomaco; gli occhi, smarriti tra assenze e nuove aliene presenze faticano a ritrovare la
via.
In uno stile che rinuncia a mostrare, questo progetto si propone invece di suscitare; sensazioni, pure visioni di
quei luoghi, di quei personaggi e degli spiccioli di memoria che balenano alla mente come lampi fugaci.
Border Town perché quella che non si vede nelle fotografe è una città di confine, sospesa tra la realtà dei mattoni e l’immaginazione che diviene a tratti pura rappresentazione.
Ciclón, Grugén, la Fattora e altri personaggi anch’essi border, anch’essi al con ne tra memoria, fantasia e leggenda, egregiamente misurate nei testi di Cristina Ortolani che – come una moderna alchimista, o una strega,
ma di quelle belle e brave – ha colto l’essenza dei miei scatti, e sublimando e distillando, ha creato un elisir
d’eccezione in grado di rendere fruibile la visione (materia grezza) di un artista ad un pubblico più vasto.
Pubblico che non troverà in queste pagine le cartoline che forse si aspettava da una mostra fotografica su Pesaro ma che, dentro e al di là dello sfocato e del mosso, o nelle crepe di un muro, potrà accedere a frammenti di
memoria e sensazioni autentiche.
In fondo, credo che il ruolo di un artista sia quello di donare sempre qualcosa di sé all’osservatore.
Questa è la mia “personale visione” – come mi era stato chiesto – questa è la mia Pesaro.
Lorenzo Di Loreto